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martedì 12 luglio 2011

Tutti a scuola, à l’école!

(di Silvana Biasutti)
Quella che scrivo è una storia vera; la storia di un’utopia che avrebbe dovuto diventare realtà, precorrendo i tempi difficili che stiamo attraversando e che, in qualche misura, avrebbe potuto altre idee che, come nuvole, camminano nella testa di alcuni di noi.
C’è stata una volta in cui a una persona che conosco bene è capitato di acquistare un bellissimo pezzo di terra – a Montalcino e in un’epoca in cui il vino non era ancora così totalizzante, com’è stato finora – e su una piccola porzione di quella bella terra appena acquisita aveva immaginato di dare vita concretamente a una scuola molto speciale, chiamando in causa sia
l’amministrazione pubblica che grandi aziende private (imprese che questa persona aveva avuto occasione di conoscere bene e con cui aveva rapporti attivi).
Questa persona aveva intuito che i giovani che vedeva crescere e andare a frotte all’università – il che non è affatto male, in sé – si concentravano su alcune professioni: giornalismo, comunicazione, relazioni pubbliche, ufficio stampa, produzione televisiva e cinematografica, marketing, pubblicità, e aveva cominciato a chiedersi come avrebbe fatto il mondo produttivo a impiegare tutte quelle volonterose intelligenze; ma prima ancora si domandava perché tutti quei giovani volessero fare quei lavori, così generici e ‘virtuali’. Però capiva (e non era la sola a capirlo) che quelli erano i lavori che avevano più colpito la fantasia dei giovani, che forse li avevano visti in tv, e anche l’università assecondava questa tendenza, con la creazione di facoltà di “comunicazione”, declinate variamente, ad imitazione del DAMS bolognese di Umbero Eco. Echi di Eco, che come tutti gli echi che si rispettano, erano però un’ombra dell’originale, meno prestigiosi, meno efficaci.
La persona di cui sto scrivendo aveva la vista abbastanza lunga e un sacco di conoscenze. Così, colma di emozione per il dono che gli era capitato (cioè la terra che aveva acquistato), coinvolse un collega, uno dei più bravi esperti di organizzazione aziendale in circolazione, e insieme a lui iniziò a elaborare un piano, per creare, in una particella del terreno appena acquistato, una scuola che aiutasse i giovani che l’avrebbero frequentata ad avere un’idea meno retorica e più futuribile del mondo del lavoro. Un’idea che li aiutasse a scegliere un percorso formativo che li aiutasse ad essere felici e appagati. Perché un lavoro in cui esercitare il nostro talento è alla base della propria realizzazione personale.
Ci sono mestieri artigianali che quando vengono fatti bene vengono definiti “a regola d’arte”, sono lavori molto richiesti ("senti, conosci un bravo artigiano?"), ma chi li fa viene spesso guardato con sufficienza e con poca considerazione. Perché gli artigiani usano anche la manualità e chissà perché il lavoro manuale è considerato (tutt’oggi) generalmente di serie ‘b’, anche se i bravi artigiani lavorano prima di tutto con la conoscenza, usando un patrimonio personale inestimabile, che è qualcosa a cui difficilmente viene da attribuire un “prezzo”, come accade con quasi tutto, oggi. Insomma che cosa manca a quei mestieri? Serve legittimazione sociale, cioè l’idea che un bravo idraulico o un vasaio siano persone colte, di successo, persone che parlano un italiano corretto, che forse conoscono una o due lingue straniere e magari leggono libri, persone capaci di appassionarsi al latino, alla musica o all’economia. Esattamente come si pensa che accada a quelli che fanno il regista o il pubblicitario.
I due misero a punto il progetto di una scuola, dove i giovani potessero imparare i lavori artigianali e allo stesso tempo potessero stare a contatto con uomini di pensiero (filosofi, economisti, poeti, semiologi,…) che avrebbero avuto il compito esplicito di validare il lavoro manuale e contestualizzarlo diversamente nell’immaginario dei discenti, rompendo certi schemi reazionari e obsoleti, così radicati della mentalità corrente. L’ubicazione della scuola in un sito di grande bellezza naturale, come Montalcino, la contiguità con la Val d’Orcia (appena divenuta Parco), il successo del vino e le numerose porte collaterali che si stavano aprendo, avrebbero fatto il resto.
Un giovane in carne e ossa – un francese, laureando architetto, con la passione della manualità e del design – prestò a quel tempo il proprio lavoro (intellettuale e manuale) alla definizione del progetto concreto, da realizzare su quella parcella di terra che chi sta all’origine di questa storia aveva (un po’ follemente) deciso di donare come proprio contributo fattivo: in pochi mesi il lavoro del laureando divenne una ricerca vera e propria con un titolo europeo (L’école de Montalcino) e con approfondimenti che piacquero al corpo docente de l’Ecole d’Architecture de Lyon, dove fu presentato e discusso, come tesi di laurea, sollevando l’interesse di molti per un progetto che prometteva di disegnare destini diversi per le future generazioni …
Poi tutto si afflosciò, stemperandosi in vaghe assicurazioni di interesse: forse era un disegno troppo complesso e faticoso da portare a compimento, ma forse il destino di tanti giovani, a cui non si sanno dare risposte accettabili, meriterebbe ora uno sguardo diverso.

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