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martedì 12 luglio 2011

LA PAURA FA SESSANTA

In principio fu 80. Tanti erano i quintali di uva di resa previsti per ettaro di vigneto registrato a Brunello, in quel di Montalcino. E si vide che ciò era buono, ma non troppo. E allora si decise di scendere a 70. Poi venne la crisi, la sovrapproduzione mondiale, i vini dei Paesi Terzi, poi Quarti, Quinti e financo Settimi (bypassando i Sesti che il Brunello lo fanno, e buono, ad Argiano). E si videro l’Invenduto e il Calo dei Prezzi. E ciò non era più tanto buono, no. E poi ancora si videro cose che con grande difficoltà gli
umani possono immaginare: politici europei che per contrastare la sovrapproduzione di uva pensavano di liberalizzare gli impianti viticoli, un po’ come provare a spegnere un incendio con l’elio. E si videro Paesi da limitata vocazione vinicola (Germania) e di grande vocazione vinicola (Francia) opporsi, e altri Paesi di grande vocazione vinicola (Italia, Spagna) dormire sonni profondi, salvo svegliarsi all’ultimo momento e dire “Ehi, neanche noi siamo d’accordo!”. E si videro aree enologiche italiane (Valpolicella, Chianti, ecc.) prendere provvedimenti per contrastare la possibile esplosione di produzione, che tanto riempie l’orgoglio patriottardo (produciamo più della Francia, e giù scroscianti applausi) quanto le cantine per anni ed anni. E persino il Consorzio del Brunello di Montalcino pensò di uscire a riveder le stelle, decretando l’abbassamento della resa per ettaro a 60 quintali.
Niente da obiettare, anzi, l’idea sembra andare nella giusta direzione – il primo ettaro di vigna, a dire il vero, rimane soggetto ai vecchi 70 quintali per dare un’ancora di salvataggio alle piccole aziende, e va benissimo – ma, storia d’Italia alla mano, ci rosicchia la mente “quel tarlo mai sincero/che chiamano pensiero”: sarà tutto qui? Domanda che domiciliamo in Montalcino, ma che potrebbe prender casa in ogni angolo d’Italia. Perché d’accordo abbassare la resa per tutelare la qualità, ma un paio di punti di attrito restano. Il primo non dipende da Montalcino, dal Consorzio o dal Brunello, ed è quella sbobba tutta italiana che mescola i concetti del “volemose bbene” e del clientelismo: perché se oggi io voglio bbene a te, magari domani tu vorrai bbene a me, ed il rapporto è oliato. Una sbobba che, nel mondo del vino, si traduce nell’inflazione – ormai a livelli grotteschi – delle denominazioni d’origine. Siamo il Paese con il numero più alto di Docg, Doc, Igt e via discorrendo, il che favorisce l’autocompiacimento, certo, ma qualche problema sul mercato lo crea. Perché è ben vero che si tratta di marchi che certificano l’osservanza di regole di produzione e di legame con il territorio, ma è altrettanto vero (e inevitabile) che nella mente del consumatore finiscano per equivalere a garanzia di qualità, intesa nel senso di bontà, di eccellenza, di rarità. Ma se si continua a dare una Doc al giorno senza creare uno strumento diverso su cui catalizzare l’attenzione del consumatore, questo sarà disorientato e, nel peggiore dei casi, perderà fiducia.
L’altro punto in questione, non dissociato dal primo, è l’assenza di una promozione efficace, di una linea comune, forte, accattivante. Qui si continua a vivere di rendita, sulle spalle di un nome che sarà pure solido, ma non tanto quanto il nome “Champagne” o “Bordeaux”. Bisogna inventare qualcosa partendo da una linea comune perché l’oggi magari è sicuro, ma il domani no. Bisogna cominciare a guardare – organicamente, non ognun per sé – alla Francia non più con invidia e malcelato risentimento, ma come un modello da cui possiamo imparare qualcosa per quanto riguarda il mercato.
La paura è sana, ci permette di proteggerci, magari anche di crescere.
Ma se fa solo 60 non basta.

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