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giovedì 16 dicembre 2010

LASCIANDO SOLI I COLTIVATORI LASCIAMO SOLI NOI STESSI


di Giorgio Scheggi

Non possiedo, né ho mai posseduto alcun terreno agricolo. L’orto del nonno era in affitto e i pochi metri quadrati che confinano con la mia attuale abitazione sono molto più simili ad una cava di pietra che ad un giardino, in più, la morfologia del terreno offre consistenza al motto “l’orto ti vuole morto”.
Cionondimeno la mia insistente attenzione (fissazione?) per l’agricoltura, per i suoi problemi, la sua etica antica e terrificante, il suo enorme potere sul paesaggio e segnatamente, sul nostro paesaggio, non è mai venuta meno.

Vivere dalle nostre parti ti fa subire questa sorta di straniamento: tutto intorno a te di parla di campi rubati a calanchi e ginestre, di fatica, di fossi, sentieri, laghetti eppure nessuno ne parla, nessuno se ne occupa, nessuno avverte il vuoto creato dall’aver negato a noi stessi che da lì veniamo.
Oggi tra un comunicato sindacale ed un lamento lieve, avvertito qua e là, assistiamo forse al funerale di ciò che era rimasto dell’agricoltura non viticola. La morte arriva con il precipitare del prezzo dei cereali, in particolare del grano duro. La coltura che segnò la svolta più repentina e sorprendente nell’economia rurale di questa parte di Toscana, è divenuta l’epitaffio sotto al quadro di quel luminoso catino verde di grano che fu la Val d’Orcia.
Più volte ho soltanto accennato al guasto paesaggistico che l’abbandono della cerealicoltura determinerebbe. Nessuna coltura seriamente alternativa è alle viste e ciò che succederà, statene certi, che al primo accenno di opportunità economica per colture tipo colza ne saremo invasi, siano i semi geneticamente modificati o meno, sia che risultino indispensabili passaggi con fitofarmaci aggressivi, se non insetticidi. E’ una legge economica che si può contrastare non con le belle parole, non con i peana in favore dell’ambiente, ma con una politica seria di sostegno ad una coltura che deve essere considerata patrimonio paesaggistico. Ma non stiamo parlando di assistenzialismo, non stiamo parlando di puntellare qualcosa di inutile o fatuo: stiamo parlando di un prodotto che, per quanto eccedentario sia, ha nelle produzioni valdorciane, punte di assoluta eccellenza qualitativa. Se, in un giorno di fine giugno, voi vi fermaste al bordo di uno di questi campi dorati e staccando una spiga di grano ne osservaste i chicchi, notereste la perfetta struttura vitrea, il riflesso rossastro. Un gioiello inatteso dalla cruda argilla.
Si dice che in Italia questa coltura si sia ridotta del 40%, ancora poco se si considera che nel 1993 il grano sfiorava i 30 euro al quintale ed oggi, con costi di produzione molto più che doppi ed oggi, diciotto anni dopo, ne costa 12. Ogni ettaro coltivato a grano duro, conti alla mano e contributo comunitario compreso, “costa” determina una perdita secca per il coltivatore di 200 se non 300 euro. Quelli che credono ancora di guadagnarci qualcosa, mettono zero alla voce “manodopera”, cioè non valorizzano il proprio lavoro.
Dobbiamo muoverci, dobbiamo mobilitare ogni Ente Pubblico o privato che possa darci una mano, dobbiamo difendere un prodotto che è anche quasi tutta la storia di queste terre: aiuti diretti alle imprese, rafforzamento della filiera, sgravi fiscali. Azioni che porteranno un beneficio a quanti lavorano la terra, ma forse ancor più a tutti gli altri, coloro che traggono da vivere sul turismo, sull’edilizia, sul commercio. Beneficio politico per coloro si battono per l’ambiente per la conservazione del carattere culturale di questa parte di Toscana.
Lasciando soli i coltivatori, lasciamo soli noi stessi: un pessimo affare.

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