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venerdì 5 ottobre 2018

La Croce di San Pietro in Villore di San Giovanni d’Asso

Pienza, La Croce di San Pietro in Villore di San Giovanni d’Asso
La Croce è una “tavola” di 177 x 118 centimetri del XII° secolo, attribuita ad un anonimo definito “Maestro di San Pietro in Villore” e può considerarsi come la più antica testimonianza di pittura nel territorio senese, insieme al Crocifisso di Sant’Antimo.
Questa antichissima Croce dipinta, quasi una reliquia della pittura senese delle origini, ci è giunta in uno stato di conservazione assai grave e con ampie lacune, che l’attuale restauro, realizzato nell’ambito di Restituzioni, ha cercato di risarcire, per quanto possibile.

Il dipinto si conserva nel Museo Diocesano di Pienza, ma proviene da una chiesa romanica che reca il titolo di San Pietro in Villore, storpiatura vernacolare di San Pietro in Vincoli. L’edificio, ancora ben conservato, sorge appena al di fuori di San Giovanni d’Asso: un borgo medioevale posto al limitare delle Crete senesi, verso la Val d’Orcia. È possibile che a San Pietro in Villore la croce fosse destinata fin dall’origine, anche se la sua prima attestazione risale solo al 1813, quando l’erudito senese Ettore Romagnoli la vide nella cripta della chiesa.

Riscoperta nel 1926, da un appassionato conoscitore di pittura senese come Federico Mason Perkins, la Croce mostra al centro il Cristo vivo e triumphans; al di sopra dello spesso nimbo (in parte reintegrato durante il restauro), è il titulus crucis di colore bianco in campo rosso: «[iesv]s nasarenvs / rex ivdeorv[m]». Nella cimasa due angeli volanti a mezza figura ostendono, entro un clipeo, l’immagine del Redentore benedicente con un libro nella sinistra, in quella che è stata interpretata come una raffigurazione simbolica dell’Ascensione. Giovani angeli a mezza figura compaiono anche alle estremità dei bracci trasversali, mentre nei tabelloni, due per parte, sono quattro figure stanti.

La donna dipinta in luogo d’onore, velata e abbigliata di bianco, alza le mani a sostenere un calice, nel quale raccoglie il sangue proveniente dalla minuscola ferita del costato di Cristo (e come si usava fare con le reliquie più venerate, la coppa non è tenuta con le mani nude, ma con un panno prezioso). Si tratta di un’iconografia consona all’allegoria dell’Ecclesia, che buona fortuna ebbe nei secoli dopo il Mille e qui comparirebbe tuttavia da sola, senza essere accompagnata, di contro e come di consueto, dalla figura della Sinagoga. Questa rarità iconografica – con la variante del sangue raccolto non nel calice, ma in un’ampolla – compare anche nella Croce di Porziano, un lavoro di scuola spoletina che si data ormai entro il Duecento e si conserva nel Museo del Tesoro della Basilica di San Francesco ad Assisi. Grazie al confronto con quest’ultima, corredata fortunatamente di iscrizioni, si intende che la donna che raccoglie il sangue raffigura non l’Ecclesia, ma più semplicemente Maria di Giacomo (detta anche di Cleofa). Dietro di lei, con il mantello azzurro, si riconosce la Vergine Maria; di contro troviamo Giovanni evangelista e, ammantata di rosso, Maria Maddalena.


Ben poco rimane delle rigide gambe frontali del Cristo, concluse in basso dai bidimensionali piedi divaricati, che poggiano su un piedistallo (ben distinto dal fondo azzurro dei bracci della croce), cui il pittore ha dato la forma di un esagono con i lati di dimensioni irregolari, invece della più consueta forma quadrata. Al di sotto del piede sinistro pare di riconoscere la silhouette di un supplice inginocchiato, ma più realisticamente potrebbe trattarsi di un lacerto di una scena popolata di ulteriori personaggi perduti, che, come in tanti altri casi, poteva trovarsi nella base della croce. Quest’ultima termina con un supporto che non era dipinto, e reca quelli che sembrano essere tre grandi fori per cavicchi, nei quali doveva essere incastrato un ulteriore suppedaneo, utile alla sistemazione originale, forse sopra un altare, una trave o un tramezzo, come si usava per simili oggetti della devozione.

Da Perkins in poi, gli studi hanno sempre sottolineato la stretta corrispondenza che corre tra questa Croce e quella giunta al Museo Civico e Diocesano d’Arte Sacra di Montalcino dalla grande abbazia di Sant’Antimo in Val di Starcia, a una quindicina di miglia da San Giovanni d’Asso. Entrambe si potranno riferire dunque a un pittore o a una maestranza da battezzare con il nome di Maestro di San Pietro in Villore, che dobbiamo credere operoso in Toscana meridionale nell’ultimo quarto del XII secolo. Egli interpreta in maniera personale certi modelli di croci duecentesche toscane (come quella dell’abbazia di Rosano presso Firenze, o di San Frediano a Pisa, dove i tabelloni accolgono tuttavia storie) e spoletine (da quella di “Alberto Sotio” datata 1187 nel Duomo, alla “croce azzurra” del Museo Diocesano), con una particolare predilezione per le eleganze grafiche (come si nota nei fili della barba o nei decori del perizoma di Cristo) e soprattutto i colori vivaci e ricercati.

Il cordiale linguaggio del Maestro di San Pietro in Villore appare dunque come un sintomatico antecedente per il Maestro di Tressa (che operò in terra senese almeno dal 1215), e per quella pittura che nel pieno Duecento Margarito d’Arezzo avrebbe disseminato tra Arezzo e la Val di Chiana. Sia che provenisse dall’area spoletina – come talvolta si è ipotizzato – o che fosse autoctono, il Maestro di San Pietro in Villore si erge dunque a lontano progenitore della scuola senese.

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