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lunedì 21 ottobre 2013

Il Nome della Cosa (ovvero come funziona un marchio)

di Silvana Biasutti        
(VAL D'ORCIA - terra d'eccellenza, n°11)
Quando si crea un logo, si ha l’intento dichiarato di lavorare sull’immaginario della gente. Nel linguaggio comune, un logo non corrisponde tanto alla parola (come l’etimologia suggerisce) quanto alla forma che le si dà. Nel tempo – anche senza essere abbonati a Graphis – quelli che hanno lavorato e lavorano a marchi e ‘naming’ – prodotti, aziende, partiti, servizi – hanno aderito a una sintassi tacita che regola sia le
forme sia i contesti e i format, in cui si usa un marchio e/o un logo che lo esprime. Quando questo avviene nel tempo, in modo armonioso, a un certo punto la sola visione del logo rende esplicito il marchio, con tutte le conseguenze del caso. Così accade per la “A” di Mondadori (che contiene anche una emme, ma che ricorda soprattutto l’iniziale del fondatore Arnoldo, portandosi appresso il suo carisma); succede con le “YSL” intrecciate di Yves Saint Laurent; con il cavallino rampante della Ferrari; con i cerchi intrecciati di Audi, e in molti altri casi, intorno all’universo mondo. Già il vedere un certo segno (che non è solo un’iniziale o il font in cui è scritto un nome), anche un solo segno e basta, ci ricorda una marca, cioè un servizio (es. Enel), o un partito, o un prodotto (es. Nike). In questo ultimo caso – in particolare – arriva fino a trascendere l’origine del segno (nel caso Nike, la sintesi visiva dell’ala della dea), fino a scordare la citazione implicita (la Nike di Samotracia del Louvre), fino a lasciarsi alle spalle il significato letterale (Nikè=Vittoria), fino a storpiare addirittura la pronuncia originale del nome, per raccogliere ed evidenziare solo quello che ‘sta dentro’ a quel segno, cioè: si corre (si gareggia) per vincere (nel campo gara, ma soprattutto nella vita). Il tutto diventa il famoso ‘baffo’ che ritroviamo sulle nostre scarpe per il tempo libero (che pretendiamo dedicato allo sport e al conseguente fitness, che ci rende vincenti), o sulla tuta di un migrante appena sbarcato. Questo ultimo testimonial allora ci ricorda inesorabilmente aspetti meno ‘gloriosi’ di un marchio …
Questo percorso, questi ragionamenti stanno dietro le quinte della creazione di un marchio, quando si parte da zero, ma anche nel suo divenire, nella sua crescita, lungo la sua storia, nel suo prendere forma nella testa dei suoi utenti (o iscritti, nel caso di un partito; o clienti, nel caso di una merce o lettori, nel caso di una casa editrice). Quando a un certo punto della storia di un’impresa ci si pone il problema di una ‘rivisitazione’ del marchio (o del logo), la scommessa è una: renderlo ancora più simile a sé stesso, cioè a ciò che esso significa, rafforzandone il significato per i propri stakeholders*.
Un ragionamento solo tecnico? Non più di tanto, perché l’intento è quello di rendere chiara la complessità, le professionalità, l’esperienza e la conoscenza che questo processo richiede. Ma non solo; un marchio e il logo (eventuale) che lo evoca, non sono un’operazione commerciale o di valorizzazione meramente economica: il fatturato è una conseguenza di un insieme di comportamenti sinteticamente rappresentati. Un marchio comunica un’idea, o un ideale. Tutto ciò che esso commercializza (eventualmente) deve stare “lì dentro”, deve cioè corrispondere a quell’ideale. Questo sembrava assai più semplice, quando i media erano meno pervasivi, nella vita delle persone, quando raccontavano meno e meno si “immischiavano” (come capita di sentir dire). Ora, anche se i media raccontano un sacco di stupidaggini – pettegolezzi di ogni genere, amenità, cronaca effimera, eccetera –, accade che raccontino anche fatti dolosi o incidenti di percorso delle imprese. È evidente che in quei casi sia necessario gestire i problemi prima che diventino notizie, se non si vuole che una ‘cattiva stampa’ incrini il valore di un marchio (prima simbolico e poi economico) e di un nome.
Una parte del processo a cui mi riferisco è curata da ‘artisti’ o da ‘grafici’; entrambe le figure, spesso, sono dotate di antenne che consentono loro di cogliere i segnali che sono – letteralmente – nell’aria e di farli intervenire; qualche volta la committenza è largamente dotata di sensibilità e di ‘senso del brand’ (mi vengono in mente Giorgio Armani, Luciano Benetton, Giovanni Rana, Leonardo Mondadori, Miuccia Prada). Talvolta, invece il marchio è nelle mani di istituzioni, amministrazioni pubbliche, consigli di amministrazione; in altre parole, chi deve decidere non è l’”anima” del prodotto (o servizio, eccetera), ma è parte di una struttura burocratica, la cui sensibilità e competenza spesso non corrispondono alle esigenze  di una comunicazione che deve centrare il tema, in un mondo molto complicato (e più sensibile di quanto si creda)!
Non so se questa riflessione (che è anche una testimonianza) possa essere utile ai lettori di questo pezzullo; mi auguro di sì. Non è facile trovare gente predisposta (e allenata) a capire, razionalizzare che cosa ‘pensa’ il mercato. E per occuparsi di un ‘brand’ bisogna sforzarsi di capire gli altri, i loro desideri, i loro sogni. Allo stesso tempo bisogna saper vedere sé stessi (e ciò che si offre) con gli occhi degli altri. Mi è capitato di riassumere sinteticamente le domande che è opportuno porsi, senza mentire a noi stessi, senza diventare retorici; senza essere supponenti. Tutto questo può essere sintetizzato in una parola, o in un segno; o in entrambi. E quei simboli devono smuovere , devono commuovere, senza tradimenti.

*Tutte le categorie che gravitano dentro e intorno all’impresa, senza le quali essa non vivrebbe, cominciando dai propri lavoratori, ma poi i fornitori e i clienti, le istituzioni, i sindacati, …

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