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sabato 5 aprile 2014

Fare fiasco. Ragionamenti intorno a un’espressione controversa

di Raffaele Giannetti        
(VAL D'ORCIA - terra d'eccellenza, n°13)
Si dice che l’espressione «fare fiasco» nasca dal mestiere del soffiatore di vetro. «Fare fiasco» indicherebbe la produzione accidentale di un fiasco – o di un recipiente somigliante – in luogo di un’altra forma più difficile da ottenere. In quest’ottica, il fiasco costituirebbe un insuccesso.
Alcuni sostengono, invece, che l’espressione nasca altrove: un fiasco sarebbe stato all’origine dell’insuccesso
teatrale di Domenico Biancolelli (Bologna 1636 - Parigi 1688), il grande Arlecchino che, una sera sfortunata, decise di improvvisare sopra quell’oggetto.
Non è difficile rimanere perplessi di fronte a spiegazioni di questo tipo. Ci sembra, infatti, che entrambe le storie, pur contenendo suggestioni di qualche interesse, suggeriscano dinamiche distorte.
L’episodio teatrale pare, per più di un motivo, un innocente aneddoto trovato [?] nelle pieghe della storia e utilizzato maldestramente per spiegare la nostra vicenda. Verrebbe piuttosto da pensare a una raffinatissima performance in cui l’attore, con un fiasco in mano, cerchi di inverare il motto che già conosce!
Ma è proprio la singolarità del detto – data la presenza di un verbo (fare) con cui nessuno avrebbe descritto il fiasco di Biancolelli – a denunciare che l’espressione precede il fatto a cui è stata appiccicata. Inoltre, siamo proprio sicuri che prima di Biancolelli non si dicesse «fare fiasco»? Una indagine in tal senso potrebbe essere determinante.
Il fatto che l’episodio sia tratto dal mondo teatrale, nel quale la nostra espressione si trova particolarmente a suo agio, non dimostra la sua correttezza, anzi.
La prima spiegazione che abbiamo riportato, quella relativa ai soffiatori di vetro, appare senz’altro più convincente. Eppure, se è vero che il ricorso a un soffiatore di vetro rende plausibile anche il verbo fare, che almeno sembra descrivere bene quel mestiere, ci insospettisce la mancanza dell’articolo: perché «fare fiasco» e non «fare un fiasco»? Questione di lana caprina? Chissà.
Non è difficile che «fare fiasco» indichi un fiasco, per così dire, già metaforico, un fiasco che è stato spinto nelle officine del vetro soltanto in un secondo tempo e soltanto a causa della sua vitrea natura (come si è già visto, per il teatro, nell’aneddoto dell’Arlecchino). Nella stessa maniera, l’espressione «fare scopa» – che significherà ‘fare piazza pulita’ – è già metafora quando la si mette sopra un tavolo da gioco: non sarebbe troppo saggio pensare a dei fabbricanti di scope che stanno intrecciando eriche. In altre parole, le due soluzioni fin qui ipotizzate possono derivare facilmente da un’indagine preconcetta, la quale si può riassumere con una domanda: «Dove potremmo trovare un fiasco?». In due luoghi: un teatro e una soffieria.
«Fare fiasco», come molte altre espressioni, potrebbe verosimilmente nascere non da un caso – la sfortuna di  Biancolelli – o da una pratica storica, ma anch’essa in qualche modo casuale e soprattutto marginale rispetto all’uso dell’espressione, ma da un senso diffuso, per il quale il fiasco ha già assunto la sua nuova veste semantica.
Il fiasco, insomma, deve essere stato un’immagine condivisa, chiara e diffusa, che non trae certamente dai soffiatori il significato dell’insuccesso, ma dalla sua stessa forma. Vogliamo dire che il fiasco è già fiacco o flaccido prima di essere soffiato(1). L’insuccesso è iscritto nella sua forma, quasi modellata dal peso del liquido che contiene e che lo allunga verso il basso, come fosse il guscio di una goccia.
Fare fiasco è fare flop! È quello che succede quando la pressione diminuisce a causa del cedimento o della dilatazione del recipiente che contiene l’acqua o l’aria. Il che ci riporta presso i soffiatori, i quali, però, già conoscono la portata metaforica del fiasco. Anzi si potrebbe sostenere che lo abbiano chiamato così proprio per  la sua valenza metaforica.
In ogni caso, è da credersi che tutti gli aneddoti con cui si spiegano le varie espressioni finiscano, disgraziatamente, per descrivere una lingua che si formerebbe quasi dal nulla, senza logica alcuna, per puro caso; una lingua che, secondo alcuni, avrebbe potuto dire «fare ombrello» per definire un insuccesso teatrale se solo Biancolelli, quella sera, avesse preso un ombrello invece di un fiasco. Non è così, fortunatamente. La lingua si serve di analogie, di mille trapassi metonimici e d’altro tipo, che possono sfuggire a chi la guardi da lontano e a chi non abbia dimestichezza con gli oggetti a cui i nomi si riferiscono.

1. Checché ne dica lo specialista, alcune “scientifiche” spiegazioni del dizionario etimologico non sembrano altro che spregiudicate avventure. L'interpretazione di fiacco e flaccido, difficilmente comprensibile e riassumibile, può esserne un esempio. Si veda, naturalmente, anche la voce “fiasco” (M. Cortelazzo & P. Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana, Bologna, Zanichelli, 1979-1988, alle voci).

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