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giovedì 20 dicembre 2012

Fatto a Mano

di Silvana Biasutti         
(VAL D'ORCIA - terra d'eccellenza, n°8)
Parto da un’osservazione di Steve Jobs – “l’uomo che ha inventato il futuro”, come è definito nel titolo della sua biografia più accreditata -: “E’ la mano la parte del corpo che più di ogni altra risponde ai comandi del cervello. Se potessimo replicare la mano, avremmo creato un prodotto da urlo.”
Questa frase continua a tornarmi in mente, quando leggo le polemiche che dividono il mondo del vino a
proposito della definizione “vini naturali” (quelli che sono curati direttamente – in vigna e in cantina – dal proprietario). Perché sono proprio quei vini che io mentalmente mi sono invece abituata a definire “Vini d’Autore”: infatti i loro autori materiali coincidono con il proprietario/vignaiolo, magari coadiuvato dall’operare di altre mani, che a loro volta hanno avuto un imprinting importante dal vignaiolo stesso.
È certo che da un po’ di tempo a questa parte – con varie gradualità – anche gli operatori di quel comparto hanno percepito la tendenza di una parte significativa dei consumatori di vino a riconoscere i vini d’autore; ma non voglio mettermi qui a elencare e analizzare le ragioni di tale apprezzamento (che tra l’altro è ben descritto in tutti i testi che parlano degli andamenti del mercato, nel corso degli ultimi anni).
Questo riferimento, invece, mi torna comodo per ricordare – a chi ha l’età per poterlo fare – quello spicchio del nostro passato che sta tornando prepotentemente d’attualità, e cioè l’Italia del “fatto a mano”; quella fase immediatamente precedente al “Made in Italy”, che ne è oltretutto all’origine, ma da cui è anche partita purtroppo la speculazione strisciante a cui – negli anni spensierati della crescita -  abbiamo lasciato spazio, permettendo  che l’ingordigia delle molte caste si appropriasse di quello straordinario patrimonio, piegando la fama dei nostri prodotti fatti a mano – così ricercati da diventare mito –  alle logiche di solo business; logiche che non hanno tenuto in alcun conto la nostra storia, le origini dell’interesse per quel mondo, la cultura del nostro paese, mettendo anche a repentaglio il nostro futuro.

Uno dei creativi che stimo di più – Giorgio Armani – afferma che anche se “ la tecnologia è un acceleratore formidabile, però un modellista lavora manualmente: la mano è molto diversa da un tasto” perché ogni mano esprime un pensiero che è un unicum – qualcosa che diviene solo in quel momento e che proviene solo da quella mente. Ecco perché io chiamo i vini, cui facevo cenno, “vini d’Autore”; essi tra l’altro smentiscono alcuni falsi principi a cui si sono ispirati quelli che hanno assunto il marketing a padrone del gioco (ignorando che il marketing deve invece essere un ‘cane fedele’ e non un padrone tiranno).
Chi pensa (ancora, oggi) che un format fortunato – ad esempio un marchio che contraddistingue un prodotto di grande pregio – possa essere qualcosa su cui sedersi e campare di rendita, limitandosi a moltiplicare il numero dei pezzi (del prodotto) pressoché all’infinito, sbaglia, esattamente come sbagliano coloro che parlano (per fortuna sempre più cautamente) di ‘sviluppo’, sottintendendo solo numeri e non qualità della vita (di tutti)…
Proprio perché siamo giunti in questa stagione – questo tempo in cui finisce un mondo e ne inizia un altro ancora sconosciuto – dobbiamo fare un profondo esame di coscienza, cominciando a ragionare sulle nostre forze, sulle unicità che abbiamo a nostra disposizione – ; in altre parole, dobbiamo andare a guardare nella nostra storia e ripartire da ciò che ha reso il nostro paese così amabile e ricercato, tanto da divenire la meta di personalità e di intelligenze che qui  hanno trovato,  non solo consumi elitari, bensì un meraviglioso patrimonio di creatività e di ispirazioni, in un paesaggio, anche umano, in grado di soddisfare tutti coloro che sono capaci di capirlo e di apprezzarlo davvero. Hanno trovato molte mani abili, che esprimevano idee originali e un sapere che si è andato evolvendo e strutturando nel tempo.

C’è voluto qualche decennio di crescita distorta per indurci a dimenticare bellezza e originalità e permettere, a chi è stato capace solo di speculare sul lavoro degli altri, di proporre ai mercati ‘globalizzandi’un’accessibilità nuova a prodotti che un tempo erano solo artigianali – semplicemente ricopiandoli senza badare troppo a salvaguardarne fascino e reputazione ma     proponendoli come identici a quelli a cui si ispirano e di cui imitano – confondendoli persino, col passare delle stagioni – gli aspetti caratteristici. E spesso ciò è accaduto con il pretesto di renderli accessibili a tutti!

Ora il mercato è mutato profondamente, sia come capacità di spesa che come atteggiamenti e propensioni, ma anche numericamente. Leggo oggi che “siamo tornati ai livelli del 1994”: ma a me pare che psicologicamente siamo arretrati ai tempi della mia giovinezza, però senza la spinta di allora e senza gli entusiasmi di quegli anni.

Potremmo essere tornati ai tempi del “Fatto a Mano” che ci ha reso famosi, come quando Ferragamo era l’autore delle scarpe di Soraya e però anche noi ragazze cercavamo di acquistare un paio dei suoi meravigliosi sandali per dare un tocco di stile alla nostra estate; o come quando poteva capitare, ai più fortunati, di acquistare a Londra un taglio di tessuto per un cappotto e scoprire poi che era una stoffa creata e cardata Biella da artigiani di grande gusto e cultura.

Siamo un paese manifatturiero, in cui però è andato diminuendo il numero delle mani “che fanno” (ciò che la mente pensa), a fronte dell’aumento di quelle che adempiono gli obblighi di una burocrazia esagerata e improduttiva. Chi cerca gli spazi per tornare a “fare a mano” non ha vita facile, dovendo fare i conti anche con la penuria di risorse finanziarie. Però la strada è quella: meno numeri e più originalità, più creatività senza compromessi, tirando fuori tutte le nostre abilità e utilizzando tutta la tecnologia che il ‘nuovo mondo’ ci mette a disposizione.
Ma senza più illusioni di facili e veloci arricchimenti.

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