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lunedì 1 ottobre 2012

Il paesaggio ha un avvenire

di Silvana Biasutti          
(VAL D'ORCIA - terra d'eccellenza, n°7)
Non sono la sola ad aver traslocato dalla città per vivere in un luogo di mirabili paesaggi. Anche se molti, magari, possono essere indotti a pensare che un trasloco da Milano a Montalcino, potrebbe essere
stato stimolato dal vino Brunello, che a Montalcino nasce e diviene (ma non è così).
Non sono la sola ad aver fortemente desiderato e poi pianificato questo viaggio ideale; ma sono tra  quelli che l’hanno pensato, sentito e realizzato in tempi non sospetti, quasi controcorrente, mentre l’inclinazione generale era quella di cercarsi una casa al mare. E non siamo pochi ad aver fatto questa scelta. Anche se parlare di paesaggio – fino a poco tempo fa – era un po’ come parlare di ‘lettura’ negli anni sessanta del secolo scorso: un argomento da salotto, da ‘signore bene’, qualcosa insomma di cui si poteva raccontare, anzi meglio chiacchierare, bevendo un tè, tra gente che non ha niente di urgente o di concreto da combinare.
Di paesaggio si è parlato, un po’, come di un derivato dell’ambiente o di un suo corollario – il che è vero solo parzialmente perché sono due concetti diversi –. È successo tra i “verdi”, intesi come partito, come movimento e come modo di sentire; ma lo sguardo ambientalista – rifiuti, qualità dell’acqua, energie alternative, ecologia – è di solito prevalso.
Si parla raramente di paesaggio nei mondi che più ne trarrebbero vantaggi – quello del vino, ma anche di altri prodotti agricoli felicemente trasformati nel nostro paese – e quello del turismo, che ha girato il suo sguardo piuttosto verso le città d’arte e/o la disseminazione di beni culturali nel territorio. Nel caso del turismo, sono convinta che le varie autorità e istituzioni non si sono (ancora) occupate di paesaggio anche perché non si capisce come il paesaggio possa essere l’oggetto di un “biglietto da pagare”, non ha un ingresso, come un museo…
Nel caso dell’agricoltura di qualità – vino, olio, formaggi, legumi e altre meraviglie –, dove operano coloro che il paesaggio l’hanno creato nei secoli, l’estraneità, anzi, l’ostilità a questo argomento, io credo, è strettamente correlata proprio al fatto che il paesaggio, nato dall’agricoltura, ne è continuamente influenzato. E il paesaggio agricolo italiano, che è ancora più suggestivo grazie alla ‘maglia piccola’, ha tutto da perdere quando le colture diventano ‘mono’ e diventano più estese (per quanto il nostro territorio lo consenta poco, date le caratteristiche orografiche).
Forse solo la pianura padana trae suggestione dall’intervallarsi di pioppeti (ordinati e geometrici) con grandi campi coltivati a granturco a qualche foraggio, o altro. Ma anche lì, l’estensione è limitata dalle dimensioni di una terra con insediamenti, confini, realtà sociali e storiche che sono cresciute finora con modelli nostrali. L’agricoltura italiana – quasi cenerentola senza principe – non può certo ‘competere’ con i parametri più ligi allo “sviluppo”, così com’è inteso, di solito, dagli economisti.
Ma non sono forse proprio lì i nostri vantaggi competitivi? Nelle estensioni piuttosto piccole, nei terroir raffinati e nei prodotti esclusivi e, di conseguenza, nei paesaggi che hanno meravigliato intere generazioni di intellettuali, di gente colta, di artisti? Non è che questo insistente ritornello - “le nostre imprese (agricole) sono troppo piccole”  - segue ciecamente il modello di pensiero, superato, del ‘grande è bello’? (quello stesso pensiero che faceva dire a un amico economista che a Montalcino “bisognerebbe pensare a delle fusioni tra imprese agricole, bisognerebbe che i vigneti aumentassero considerevolmente le loro estensioni, perché così si potrebbero ottenere notevoli economie”).

Fino a qualche anno fa si pensava raramente a tutto quello che l’agricoltura implica; fino a tre decenni orsono il cibo non era nemmeno messo in relazione alla terra, figurarsi al paesaggio. Ora, se ne parla sempre di più, e se ne parla perché in qualche ragionamento – qua e là – si comincia finalmente ad agganciare il paesaggio a 
dei valori economici (i soli che mi pare siano presi in considerazione).
È stata però una bella sorpresa, ascoltare il direttore di Avvenire (Marco Tarquini, che durante la scorsa settimana ha moderato tutte le mattine una delle principali rassegne stampa alla radio), parlare quotidianamente del bel paesaggio italiano e della sua fama, citarlo come valore nelle diverse declinazioni, trovare ogni giorno l’occasione per incastonarlo nelle notizie di cronaca, di politica, di economia spendendo parole autorevoli per portarlo all’attenzione dell’audience. Sentirlo ‘spiegare’ il paesaggio, raccontare perché è importante per la nostra vita, dire perché un bel paesaggio ci rasserena e aiuta a vivere meglio, mi fa pensare che saranno sempre di più quelli che si accorgeranno del suo valore. A poco a poco, molti si renderanno conto che la ricaduta economica è più veloce di quanto si possa superficialmente pensare e che un bel paesaggio è anche un bel pezzo di futuro.

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