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venerdì 4 novembre 2011

Più poveri e sempre meno belli

(di Silvana Biasutti)
L’amara soddisfazione di pensare (solo pensare, perché esternare non serve ed è inelegante) “io l’avevo detto già cinque, sei, sette anni fa, perché era già così evidente che questa era la direzione …”, serve a poco. Soprattutto non serve a evitare che accada il peggio, che si scivoli sempre più in basso; però ogni tanto trovi qualcuno che ti guarda negli occhi e capisci che è solidale con te, con quello che pensi, che vede le cose come vanno e dove vanno, e che ti è grato per tutte le parole che spendi e gli sforzi che fai.

Che si stia diventando poveri, a poco a poco se ne stanno accorgendo quasi tutti; nel ‘quasi’ sono racchiusi gli imbecilli che pensano che la cosa non li riguardi, non avendo ancora capito che siamo un unico organismo, e che magari c’entriamo in qualche modo anche con quelli che crepano di fame, di sete e di silente disperazione nel Corno d’Africa; nel quasi ci sono anche due insetti poco belli, due zecche: quella della speculazione – grande, piccola, infima, non interessa: sempre di succhiasangue infetti si tratta – e quella dell’evasione: non solo fiscale, ma penso anche a quella dalla solidarietà, e dall’attenzione critica per quello che sta succedendo a questo paese (e che poi ricade sulla testa degli uomini che lo abitano).
Due lenti fracassate stanno al posto di quelle che ci permettevano di guardare intorno, leggere, capire. Ed è come se ci fosse una combriccola di imprendibili parassiti che ci camminano sugli occhiali, impedendoci di inforcarli e vederci finalmente chiaro. Sento dichiarare che il paese è ‘rincretinito’, e da un lato mi trovo d’accordo, però sento che è qualcosa che viene da lontano, non ho dubbi a questo proposito. Quando scrivo ‘lontano’, però, intendo lontano nel tempo.
Mi viene in mente una scena di qualche anno fa; mi trovo in un contesto ufficiale e sto parlando in modo ‘ufficiale’ anche del nostro paesaggio, mettendolo volutamente al centro del discorso in veste di risorsa economica, attorno a cui lavorare costruendo (e possibilmente attuando) programmi che la valorizzino in modo colto, consono a un pubblico capace di intendere la bellezza, la poesia e i messaggi che ci vengono dalla nostra storia. L’atmosfera è quasi onirica, intorno a me vedo espressioni scettiche, quasi irridenti: io mi sento come un animale impastoiato. L’idea di non costruire niente, di evitare le superfetazioni che inquinano visivamente, il concetto di ‘ritornare alla semplicità’ (in verità percorso tutt’altro che semplice e scontato, ma che garantisce di recuperare il credito di quelli che sognano l’Italia e massimamente la Toscana come quella cosa lì: ben altro rispetto alla vita quotidiana dei poveracci aggiogati a un certo doppiopetto) non può fare breccia nell’immaginazione piatta di quelli che invidiano, osteggiandolo a parole, chi c’ha i soldi, soprattutto colui che ne ha più di tutti e ha anche tanti doppiopetto. Osteggiano, ma intimamente sono stati risucchiati da un modello culturale che è entrato nel sangue del paese, anemizzandolo.
E allora il paesaggio, sì, la cultura, sì, i prodotti storici, sì, ma magari il paesaggio lo disseminiamo di ‘arredi’, che una volta erano solo urbani e poi li ho sentiti tirare in ballo persino per la via Francigena (“ci mettiamo dei bagni, per maggior comodità del pellegrino”). Perché ci sono i posti di lavoro da salvaguardare e allora costruiamo qualcosa. In questo paese pare che i posti di lavoro siano tutti intanati nelle costruzioni edilizie nuove e nella pubblica amministrazione: posti di lavoro e persone che li occupano che non hanno avuto, dal paese corrente (e dalla cultura dominante) opportunità migliori e più futuribili.
Però la parola ‘saperi’, magari antichi, abbinata a ‘sapori’ della tradizione, spopola sulla bocca di personaggi che ne sanno poco o nulla: personaggi a cui basta che le cose girino e non importa se girano nel modo giusto; perché con le cose, girano anche i soldi. E per farli girare sono disposti a tutto.
I soldi, ecco, è vero che non fanno la felicità “soprattutto quando non ci sono” (come aggiungeva sarcasticamente mia madre), ma non i soldi a tutti i costi, perché spesso possono anche corrodere. Quando campeggiano al centro dei nostri paesaggi possono cambiarne le prospettive, quando si sostituiscono al senso estetico delle nostre vite, diventandone il senso unico economico, forse dovremmo svegliarci e cambiare le lenti dei nostri occhiali.
Quante volte ho ascoltato l’aggettivo ‘sostenibile’ attribuito a qualsiasi insostenibile orrore, in virtù dell’ipocrita pratica di nascondersi dietro alle parole! Ora recuperare il senso estetico è divenuto urgente e strategico, perché viviamo in un paese che ha potuto crescere perché era bello in modo unico; ora che ogni giorno che scorre stiamo impoverendoci, dobbiamo capire che l’argine a questo smottamento che pare ineluttabile può solo essere la bellezza recuperata. Recuperando il lavoro dimenticato e i lavori trascurati, recuperando un po’ di dignità, e insieme a essa un po’ di fatturato.

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