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lunedì 18 aprile 2011

L'antiretorica dello Scalo

(di Silvana Biasutti)
Quando pensi “Toscana”, di solito ti vengono in mente colline e poderi, filari di cipressi e paesaggi così belli da rischiare l’oleografia: tutto ciò che infastidisce quelli che sperano nell’arrivo di un po’ di capannoni industriali nel paesaggio toscano, troppo rurale (sic!) troppo armonioso… Tuttavia, devo confessare che anch’io un po’ patisco il paesaggio troppo ‘leccato’ quando la bellezza è solo una facciata. Come ho sempre trovato retorici e banali certi castelli troppo levigati e un po’ finti e quelle fattorie che hanno cancellato
ogni segno della loro storia.
Perciò dopo le meraviglie e gli splendori di Montalcino e dintorni – luoghi che han fatto dire a un famoso copywriter “qui il paesaggio fa un salto qualitativo anche rispetto alla pur bella Toscana…” –, Sant’Angelo Scalo (lo Scalo, come viene chiamato dagli aficionados) seleziona il suo pubblico: dentro i sapienti, fuori i distratti, quelli che non sentono lo spirito del luogo.
Lo Scalo – “il luogo dove il brutto diventa buono” (spesso buonissimo) è attraversato dalla strada provinciale, e riattraversato da una via Grossetana che alla suddetta corre parallela; le case che si affiancano lungo quest'ultima non sono antiche né vecchie, e nemmeno belle, come tutte quelle che hanno rappresentato speranze e futuro dell’Italia rurale nel primo dopoguerra; materiali semplici e idee sempliciotte, ancora spaventate dal recente passato. Non ci sono cipressi allo Scalo; stanno in alcune aziende agricole, un po’ defilate dall’abitato. Dicevo di strade e case, ma bisogna anche citare il tempo – quello atmosferico – che qui è bastiancontrario: su fa freddo? Qui il clima è quasi primaverile; su è arrivata la bella stagione? Qui la brina domina, con nebbia o un rischio di esondazione del fiume Orcia. Per non dire dell’estate, afosa come in un western.
Perciò chi poteva, solo qualche anno fa, pensare a uno “Stile Scalo”? Chi si sarebbe immaginato che l’attenzione degli intelligenti, delle sciure e dei produttori del Brunello più fico, si sarebbe maritata a quella, già salda, dei giovani operai, degli immigrati e degli habitués d'oltrorcia, fino a creare quel clima speciale che viene a formarsi intorno a un gusto, fino a materializzarlo? E invece proprio così stanno le cose; perché contiguo ai filari di cipressi, vicino alla Toscana che un po’ se la tira, lo Scalo splende di luce singolare e convince. Forse perché è davvero buono dentro; non d'animo, eh ci mancherebbe, no: è buono quando l'addenti, quando lo metti in bocca.
Non c'è una sola 'verità' allo Scalo, ma un collage di presenze eterogenee e tutto ha il sapore della concretezza. Poche promesse: si viene a riparare un attrezzo o a trattare con Renzo una nuova idropulitrice. Si va al consorzio, si fa la spesa dalla Mavi e due chiacchiere con Pietrino. E ci sono certe sere d’estate che reclamano un piatto di spaghetti con le vongole e un bicchiere di bianco, e allora ci si trova da Enzo, seduti fuori tra le piante e i fiori, senza scialli estivi perché non c'è un alito di vento, circondati da varia umanità e un gattone pensieroso che ti guarda. La Toscana che non “si limita ad apparire” (sempre il copywriter di prima) eccola qui. Vai da Carlo che ti infila in bocca un brandello del suo prosciutto, e quando esci con la preziosa bistecca hai capito perché 'non fa spettacolo' Carlo: il tempo lo dedica alla cura del bendiddio che ti propone.
Allo Scalo si dimentica lo strano marketing che ha messo fontina nei panini (in troppi bar) e tornano emozioni toscane mai dimenticate: come un pasto semplice e saporito alla fine di un viaggio desiderato. E il prezzo è giusto. Infatti, quando ci arrivi affamato – magari da sud, subendo la prova-verità di un Autovelox – da Pino, per esempio, quando infine trovi da sederti, scopri che non ti offrono ‘enogastronomia’, ma sempre per esempio, il baccalà con i ceci che premia la sosta e incoraggia l’amicizia; e Slobo (un amor cane) che incarna il Genius Loci, fa da testimonial con uno scodinzolo e un abbaio.
Il Bancomat spesso in panne, la strada un po’ malmessa, i giornali a singhiozzo: allo Scalo trovi l’Italia, insomma, quella un po' dimenticata, perché abbiamo passato anni celebrando l’immagine e l’apparenza, “un dire senza fare abbastanza che spesso lascia indietro la sostanza”.
Allora sbirciando oltre i silos del Molino Orcia, negli intervalli tra le case, vedi che il famoso paesaggio toscano è in agguato lì tutt’intorno, e allora pensi che bello sarebbe se l’Italia – ancora bella come solo lei sa essere – si ricordasse anche di essere sempre buona dentro, anche in sostanza, come sa esserlo allo Scalo.

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