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lunedì 1 giugno 2020

Natalie Portman: lettera alla Val d'Orcia

«Nulla mi aveva preparato a un mese in Toscana... sembrò una vita intera. Non avrei mai voluto tornare a casa»

Quando arrivammo alla casa, la prima cosa che mi colpì fu il caldo: l’umido, la luce diretta del sole, bianca, accecante. Le strade erano vuote.
«Guarda, persino gli italiani se ne vanno in questo periodo dell’anno, che cosa avevi nella testa?», sgridai mio marito. Trascorsi il primo giorno nascosta nella camera da letto con i muri d’argilla, a leggere Elena Ferrante, fermandomi solo per rimproverare di nuovo mio marito per non aver affittato una casa con l’aria condizionata. «È l’Italia», mi diceva, «non hai bisogno dell’aria condizionata perché è il posto più bello del mondo». Lessi più Ferrante, giocai con i cubi, all’ombra, con nostro figlio di 4 anni, e m’immersi nell’acqua ghiacciata della piscina, un quadrato grande e funzionale fuori dalla finestra della camera da letto. Sobbollivo, forse per il caldo, forse per la violenza coinvolgente della prosa della Ferrante, forse per la mia incapacità di assorbire la bellezza del posto.

Ma dopo che il giorno finì di cuocere, scoprimmo il dono della notte.

Viaggiammo in macchina, noi tre, lungo la Val d’Orcia, al tramonto. La luce e la foschia, e il colore dell’incandescenza del giorno che si disperdeva, ci preparò per il viaggio nel tempo che stavamo per fare. Guidammo fino a Pienza, il paese più vicino alla nostra casa rovente. Passeggiammo lentamente lungo i vicoli attraversati dai fili della biancheria messa a stendere, spostandoci di lato per far spazio, lungo la stradina, a una nonna con i suoi nipotini, i bambini in bicicletta, come se fossero usciti da un film di De Sica. Arrivammo presto nella piazza, uno spazio grande a forma di trapezio con una bella chiesa su un lato, e un piccolo bar sull’altro. Era piena di gente. Gli italiani non se n’erano andati dal paese, riemergevano alla sera. I bambini giocavano a calcio nella piazza, ridendo e urlando in quella lingua bellissima. Nostro figlio si unì all’istante, grazie al linguaggio universale dell’infanzia: il calcio. Bevemmo vino al bar sul lato della piazza. Il proprietario ci fece entrare per mostrarci i suoi tesori del posto, e nostro figlio era libero di giocare, al sicuro da ogni pericolo. Il cielo era illuminato da cerchi luminosi e roteanti che un commerciante vendeva all’angolo della piazza e che i bambini lanciavano in alto verso le stelle.

Il tempo si era ugualmente fermato e dilatato. Ci sentimmo come trasportati in un’altra epoca, dove le famiglie ancora vivevano nello spazio degli stessi quattro isolati, i ragazzini potevano giocare liberi nelle strade, e la nonna era le persona più amata della famiglia, insieme ai bambini. Sconosciuti facevano buffetti sulla guancia di nostro figlio, giocavano a palla con lui, così che noi potevamo cenare seduti, e ci dicevano in italiano parole che, sono quasi certa, significavano: vostro figlio è il bambino più bello, intelligente, divertente che abbiamo mai conosciuto. Ma non parlo italiano, per cui è solo una stima ragionata.

Andammo in quella piazza tutte le sere per un mese. Mi rendo conto adesso che gli italiani hanno imparato a dominare il tempo, la nostra più grande risorsa e anche il nemico più minaccioso. Quelle serate sembrava che durassero un’eternità, e mi sentivo come se ci trovassimo nel 1952. La magia del posto mi ammorbidì, e presto cominciai ad abbracciare mio marito piuttosto che rimproverarlo, ammirando il vulcano che aveva imparato a fare per preparare gli gnocchi, una montagnetta di patate con un uovo al posto della lava. Continuai a leggere Ferrante, con la faccia al centro del ventilatore che avevamo comprato in un negozio della zona, fino a che non fui costretta a smettere, con angoscia, perché il quarto romanzo del ciclo napoletano non era ancora uscito in inglese. Nostro figlio imparò a indossare la maglietta della squadra giusta per andare in piazza alla sera (un indizio: non quella della Juventus) e diventò amico di bambini con i quali non scambiò mai una parola, grazie solo al linguaggio dei piedi. E quel mese sembrò una vita intera. E non avrei mai voluto tornare a casa, anche se avevamo l’aria condizionata.

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