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giovedì 1 marzo 2012

L’imperatore del vino Parker fa un passo indietro e incorona Galloni

I gusti miei e di Bob non sono poi così differenti, su 10 vini ci troviamo d’accordo su 7 o 8. Un esempio? L’altra sera a cena a New York, scegliendo tra i suoi 15 top, ha portato un Barbaresco di Giacosa e alcune riserve di Brunello di Montalcino Soldera. Pienamente d’accordo.

Robert Parker, il critico più potente nel mondo del vino, quello che con un voto decide il destino di un’azienda, è
pronto a lasciare. Al suo posto arriva un ex manager di Deutsche Bank, Antonio Galloni, di origini siciliane. Parker, 65 anni a luglio, è il geniale inventore del punteggio su scala centesimale e dello «stile internazionale», sorta di omogeneità mondiale delle bottiglie di alto livello. Dirige Wine Advocate, venduto in 37 Paesi. È un ex avvocato di Baltimora che per primo ha scritto dei vini di tutto il mondo, mentre i colleghi anglosassoni degustavano quasi solo i francesi. E Galloni? È più legato al territorio, alla diversità dei vitigni.
Da settimane l’Italia del vino ipotizza l’ascesa di Galloni, 41 anni, con casa in California. Ora è lui stesso a confermarla. «Robert Parker mi ha designato come suo erede già un anno fa — spiega —. Quando gli è stato chiesto a chi toccava prendere il suo posto ha fatto soltanto il mio nome. È normale che voglia rallentare il ritmo di lavoro, lo farei anch’io alla sua età. Comunque il passaggio di consegne avverrà in modo naturale, senza colpi di acceleratore e senza lentezze».
Galloni dice di se stesso di essere «cresciuto nel vino». I genitori, racconta, gestivano un’enoteca con bottiglie italiane e francesi. Nel 2000, arrivato a Milano, Galloni cambia idea sul lavoro: «Trovavo sempre minori soddisfazioni a occuparmi di cose finanziare, e sempre maggiori a scrivere di vino». Ritorna, dopo tre anni negli Stati Uniti ed edita una newsletter sui vini piemontesi. Parker lo nota e lo fa entrare nel suo staff a Wine Advocate. Gli affida due deleghe: Italia e Champagne. «Così nel 2006 ho mollato tutto, basta con gli hedge funds». Esattamente come fece Parker dimettendosi nell’84 dalla Farm Credit Banks.
Quella parkeriana è stata una macchina da guerra da 10 mila assaggi l’anno attorno a cui è girato per un trentennio il mondo dei vignaioli e dei consumatori. L’aumento dei vini alcolici e dall’inconfondibile affinamento in barriques è stato proporzionale ai suoi buoni voti. Per alcuni il suo è un gusto che appiattisce. Alice Feiring gli ha dedicato un libro dal non lusinghiero titolo «La battaglia per il vino e l’amore, ovvero come ho salvato il mondo dalla parkerizzazione». Ed Elin McCoy ha rincarato la dose dando alle stampe «L’Imperatore del vino: l’affermazione di Robert M. Parker Jr e il regno del gusto americano».
Sta per iniziare una «rivoluzione epocale»? Galloni sembra frenare: «I gusti miei e di Bob non sono poi così differenti, su 10 vini ci troviamo d’accordo su 7 o 8. Un esempio? L’altra sera a cena a New York, scegliendo tra i suoi 15 top, ha portato un Barbaresco di Giacosa e alcune riserve di Brunello di Montalcino Soldera. Pienamente d’accordo. Se ceni con lui scopri che il suo palato è molto più ampio di quello che si crede. Attento alla tradizione, non solo allo stile di vini concentrati e fruttati». Tutto come prima quindi nell’era post-imperatore? No, conferma Galloni. Ecco perché: «Ci sono così tanti luoghi che hanno raggiunto buoni livelli che è necessario marcare le differenze. La parola chiave è territorialità, bisogna ottimizzare quello che ogni regione può dare al meglio. Il Sauvignon si può produrre in molti luoghi d’Italia, ma non raggiungerà mai i livelli di Alto Adige e Friuli». Terre differenti, vini dai caratteri diversi. E per farsi un’idea di chi finirà sul podio del futuro guru, ecco i preferiti tra «gli italiani emergenti: Nerello Mascalese, vitigno che dà il meglio ai piedi dell’Etna grazie ad Andrea Franchetti di Passopisciaro e Marco De Grazia di Terre nere, e un grande classico, l’Aglianico di Taurasi, in Irpinia».

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