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giovedì 20 dicembre 2012

Gli interventi di Jacomo Franchini (1665-1736) al ponte sull’Orcia a Bagno Vignoni

di Riccardo Pizzinelli          
(VAL D'ORCIA - terra d'eccellenza, n°8)
All’attività del poliedrico Jacomo Franchini, uno dei maggiori protagonisti dell’architettura e della scultura a Siena tra sei e settecento, si devono alcuni interventi all’antico ponte sull’Orcia a Bagno Vignoni, di cui oggi restano solo alcune tracce.

La ricerca avvenuta in occasione della pubblicazione della banca CRAS nel 2010, “La regola e il capriccio. Jacomo Franchini e il barocco senese”, a cura di Bruno Mussari, Felicia Rotundo e Vinicio Serino, ha consentito di ritrovare alcuni documenti che, una volta messi in relazione a fonti bibliografiche già note, hanno permesso di giungere a fare luce sulla vicenda costruttiva di quello che, per secoli, fu uno dei punti nevralgici dell’intera via Cassia.
Dalla loro lettura sappiamo che nel febbraio 1693, un allora giovane Jacomo Franchini, supplicava i «Signori di Balìa sopra le strade» di concedergli la carica di “Capo Maestro”, subentrando nell’incarico al padre Niccolò che « … stante il eta sua e per qualche indisposizione quali non gli permettono in qualche tenppo (sic!) il servizio pontuale che deve per la sua caricha».
All’epoca la condizione generale delle strade nello stato senese appariva, come quella del resto del granducato, generalmente precaria.
I tracciati principali interni alla Toscana erano ancora quelli di origine medioevale, collegati con i pochi percorsi viari verso l’Italia settentrionale e meridionale in cui, eccezion fatta per alcuni miglioramenti risalenti al più tardi all’epoca del Granduca Ferdinando I, si era proceduto con soli interventi manutentivi, progressivamente ridotti a causa della diminuzione di risorse a disposizione delle magistrature deputate al loro mantenimento.
C’era poi una rete viaria secondaria di strade comunicative e vicariali, che collegavano i centri abitati tra loro e questi alle direttrici principali: tali percorsi però versavano in stato di relativo abbandono, stanti le limitatissime possibilità di intervento da parte delle comunità.
Sono sufficientemente note le dimensioni della crisi in cui precipitò l’economia toscana, ed ancor più quella senese nel corso del XVII secolo, per considerare tale stato di inefficienza e, talvolta, di incuria della rete viaria, del tutto in linea con quello più generale del patrimonio di proprietà pubblica.
E’ altrettanto noto che proprio all’epoca del Franchini, sotto l’oscurantismo del governo di Cosimo III, lo stato mediceo si trovò ad affrontare uno dei momenti più difficili della sua storia, e questo non solo in campo economico, ma anche a causa della crisi che aveva investito la pubblica amministrazione, in cui imperavano corruzione, incompetenza ed immobilismo, senza che lo stato centrale fosse in grado di invertire il trend negativo: e ciò nonostante fossero stati adottati provvedimenti tampone che, peraltro, non avrebbero portato ad alcun miglioramento tangibile.
In questo quadro l’intervento degli “uffici” e delle magistrature deputate alla gestione delle strade si orientò spesso, come detto, alla sola gestione delle emergenze più impellenti in attesa di tempi migliori, che non giunsero prima degli ultimi decenni del Settecento, con la ventata riformatrice di Pietro Leopoldo. Il nuovo Granduca, proprio grazie alla conoscenza acquisita sul campo, visitando di persona, viaggiando quasi in continuo in lungo e in largo per la Toscana, riuscì ad individuare il nodo cruciale del miglioramento dei collegamenti viari, autentico volano per la modernizzazione dello stato, grazie ad un nuovo sviluppo economico basato sui commerci e sul rilancio delle produzioni agricole, oltre che sull’eliminazione delle rendite parassitarie.
Questo panorama era però ben lungi dal manifestarsi all’epoca della supplica di Jacomo Franchini, mentre numerose rimanevano, almeno sulla carta, le incombenze del «Tribunale e Magistrato delle Strade, Argini, Ponti e Fiumi dello Stato di Siena», il cui «principale oggetto ... deve essere di tener bene in punto le strade che si appellano consolari, una delle quali guida a Fiorenza, ed a Roma, altra alla Maremma di questo stato ed altra alla Valdichiana, restando la prima molto frequentata per il continuo passaggio dei corrieri Ordinari e Forestieri, si anche per il frequente passaggio di Barrocci per il trasporto di tutte le mercanzie, che si staccano da Livorno per questa parte, e le altre due per il commercio e passaggio di carri, e calessi, portando l’estenzione (sic!), sopra a miglia centocinquanta, guarnite tutte di selci di quattro, e cinque braccia per la latitudine e di pedata, con muri, e steccate in moltissimi luoghi per sostenerla attesa la montuosa situazione dei paesi, dovendo invigilare, e portare a tener di queste bene in piedi sopra a ottanta ponti che vi esistono sia murati, ed altri costruiti con legname di diverse grandezze, nove dei quali composti con quattro o cinque grandi arcate volgarmente detti Reali e di prima linea».
E proprio uno di questi quattro o cinque ponti era quello di Bagno Vignoni che il Franchini ricorda in un’altra supplica al Magistrato del 5 gennaio 1702, dove dichiara il suo impegno « … nel rifacimento di più Ponti tanto per la Strada Romana, Valdichiana et altri luoghi dello Stato Senese; Narra in oltre come da pochi Anni in qua s’è rifatto di nuovo un Ponte Reale al fiume d’Orcia sotto San Quirico si come altro Ponte di Camparboli nella Strada di Valdichiana, vicino alla Terra di Asciano, ne i quali lavori doppo il corso di più di tre Anni il detto Oratore non solo vi ha impegnato l’opera personale, per condurli a perfettione, ma anchora vi ha fatto tutti quei disegni per ben Comparire la detta opera …».
Purtroppo dei due ponti tardo seicenteschi non resta ad oggi granché. Entrambi furono definitivamente distrutti dai tedeschi in ritirata nel 1944 ma, come vedremo almeno per il ponte sull’Orcia, erano ormai divenuti del tutto obsoleti all’arrivo dei mezzi meccanici. Purtroppo nella ricerca non è stata reperita documentazione tecnica d’epoca, nemmeno i disegni di cui accenna lo stesso Franchini nella supplica, documenti indispensabili per poter elaborare una analisi puntuale e tecnica capace di dar conto della portata dell’intervento interessante le due costruzioni.
Dalla lettura delle fonti è comunque possibile avanzare alcune considerazioni, anche sulla base di foto precedenti alla distruzione, in particolare del ponte sull’Orcia, lungo la Strada Regia Romana, nei pressi di Bagno Vignoni, che collegava le due sponde del fiume tra i comuni di San Quirico d’Orcia e Castiglione d’Orcia.
Come è noto, la via Romana, provenendo da Firenze, entrava a Siena da porta Camollia e usciva da porta Romana, per poi percorrere la Valdarbia, giungere a Buonconvento, poi a Torrenieri, quindi in Valdorcia, salire a Radicofani e proseguire per la Val di Paglia, fino ad arrivare al confine granducale di Ponte a Centino, da dove entrava nei possedimenti della Chiesa per giungere a Montefiascone, Viterbo ed infine a Roma. Lungo il tracciato che ricalcava quasi integralmente quello medioevale, sulla direttrice dei pellegrinaggi a Roma almeno dall’VIII secolo e ricavato su preesistenze viarie romane, furono realizzate, nel corso dei secoli, rilevanti opere stradali tra cui numerosi ponti.
Tra questi esiste testimonianza documentaria di un ponte che attraversava l’Orcia sotto Bagno Vignoni, oggetto di una perizia del 1528 da parte di Baldassarre Peruzzi. L’erudito senese Ettore Romagnoli (1772-1838), ci informa che la costruzione fu poi completamente riedificata nel 1643 su disegno dell’architetto Pietro Petruccini, dando conto dell’iscrizione posta nell’occasione: «Quod anno 1643: Ferdinando II° in Hetruria regnante intumescenti flumini jugum imposuerat = Constructo ponte publica caritas = contumaci aquarum vi dirutum = Dominante Cosimo III° Magno Hae truriae duce e providis viarum cure prefectis pristine integratati ac viator comodo restituit ut ne audaces pericola nec cauti moram aut subeant aut protrahant et quos fidissimo Senae exceperunt Hospitio viarum quoque facilitate nercantur ergo viator hospes vel invitis fluentibus securus ito: MDCLXXXXVII».
La stessa fonte ci informa che il ponte seicentesco fu “restaurato” una prima volta nel 1697 ed una seconda nel 1729 (attribuendo al Franchini anche questo intervento mentre, ad onor del vero, il nostro non era più “Capo Maestro” da alcuni anni), prima di essere di nuovo del tutto riedificato nel 1812, con disegno dell’architetto Alessandro Doveri.
La ragione di tale precarietà del ponte, che si ritroverà anche nei secoli successivi, è probabile sia originata dal fatto, come osservava Francesco Milizia nel suo trattato di architettura scritto pochi decenni dopo l’epoca del Franchini, di essere stato costruito in un punto obbligato del fiume, in quanto «niuna cosa è sì nociva quanto il ristringimento delle acque correnti, perché, oltre i surriferiti danni, potrebbero anche nelle escrescenze inondar le campagne, o caricare il ponte con impeto, e rovesciarlo».
Un altro difetto costruttivo fu individuato nelle due edicole soprastanti che furono oggetto di severa critica durante uno dei viaggi di Pietro Leopoldo per la provincia superiore senese nel 1775, in quanto queste avrebbero finito per “sfiancare” il ponte.
Gli interventi del Franchini nel 1697, comunque, devono essere stati come detto, non tanto di completa “ricostruzione” del manufatto, quanto di consolidamento con modifica di aspetti architettonici secondari quali parapetti, accessi, ecc., opere comunque rilevanti ed impegnative, data l’altezza dell’arcata rispetto al greto del fiume.
Il ponte, recentemente ricostruito con una semplice passerella “appoggiata” ai residui dei piedritti superstiti delle mine tedesche del 1944, e di cui restano ancora resti rilevanti, è ubicato all’inizio della gola dell’Orcia, dove il corso del fiume, iniziando a stringere in mezzo a due argini naturali rilevati, consentiva la realizzazione di un possibile passaggio con un ponte ad una sola arcata, già a sesto acuto, come mostrano alcune immagini d’epoca.
Proprio una di queste immagini, una cartolina dei primi del novecento non reperita ma segnalata da Fabio Pellegrini, ci potrebbe svelare però una fine un po’ diversa della vicenda. Il ponte sarebbe risultato, all’epoca della cartolina (inizi novecento), del tutto demolito, tanto che la strada statale attraversava l’Orcia su di un ponte di legno quasi a sfioramento. Il ponte ottocentesco che aveva sostituito quelli precedenti, danneggiato dalle piene, sarebbe infatti crollato proprio in quegli anni. Nel 1911 si sarebbe poi provveduto a ricostruire l’opera, che subì gravi danni per la piena del 1929, che portò via anche il Ponte di Mulina un chilometro più a valle (che fu sostituito da una passerella i cui resti si notano tutt'oggi). E’ probabilmente dopo il 1929, che si sarebbe deciso di costruire un ponte vicino, quello attuale dove passa la Cassia.
Il colpo di grazia sarebbe comunque arrivato, come detto, con le bombe della II guerra mondiale, anche se ormai il ponte, utilizzato da anni, sarebbe già caduto in rovina.

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