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L’Olmo, albero sacro, purificatore, e ingrediente di antichi medicamenti

di Luigi Giannelli          
(VAL D'ORCIA - terra d'eccellenza, n°6)
I bambini, della Val d’Orcia o di qualunque altra parte del mondo, rimangono impressionati da avvenimenti, che poi rammenteranno per tutta la vita, soprattutto se questi eventi avranno a che fare un giorno con il loro quotidiano.
Chi scrive ricorda un evento in modo più che fotografico, “filmico”, se è consentito questo orrido termine.
Quando era piccolo, la nonna materna, che tanto peso ha avuto nella mia educazione (spero buona educazione!), mi
portava sovente con sé, per i campi, a cercare piante – a volte anche curative – che avevano a che fare con l’arricchimento della tavola.
Difatti, come ho ricordato, quella volta, in un mattino della tarda primavera, inizio estate (il film si fa un po’ sfumato), si andava a cercare i “Rubilli” (ovvero quello che i Romani chiamavano “Ervum” e i Greci “Orobos”; da Orobos, Robo, Robiglia – termine impiegato nel tardo XVI secolo – Rubilli).
E chi incontrammo?
Ma due fantastiche piante, una erbacea ed una arborescente (anche se in quella occasione era poco più di un arbusto); l’erba era l’Iperico, detto da mia nonna “Pilatro” e l’arbusto era un giovane Olmo, pieno di “borse”.
Mia nonna ne prese una e la aprì (lei lo chiamava indifferentemente Olmo o nel linguaggio valdorciano “Ommio”): era piena di varie cose: una peluria idrofoba, che confinava sul fondo e sui lati delle gocciolone di liquido acquoso; tanti vermetti che si agitavano.
Abbiamo fatto un rapido studio su questi aspetti singolari dell’Olmo, ed abbiamo visto che la pianta è soggetta a vari tipi di parassiti, dai quali però esso non subisce veri danni.
In questo caso le “borse”, in realtà sono delle galle, affini – come reazione – a quelle della Quercia, sono prodotte da un afide, l’Eriosoma lanuginosum, del quale i vermetti sono le forme giovanili dell’insetto. Esso forma una colonia all’interno della galla-borsa, e secerne un liquido acquoso-zuccherino e in parte ceroso.

Nell’area della Val d’Orcia, era dunque in uso la produzione di “Olio di Pilatro”, così preparato:

  1. 1-      si raccoglievano le sommità di Iperico (Hipericum perforatum), e si trituravano grossolanamente;
  2. 2-      si raccoglievano le galle dell ‘Olmo, anch’esse da triturare alla buona;
  3. 3-      si immergeva il tutto in abbastanza olio di Oliva da coprire bene il tutto;
  4. 4-      si faceva riscaldare l’olio con le materie contenute, a fuoco molto dolce, e magari si aggiungeva un po’ di acqua o Vino bianco, in modo che non “soffriggesse” troppo.
  5. 5-      Dopo un po’, ed il tempo cambiava a seconda delle famiglie che lo preparavano, si filtrava e si conservava per l’uso.
L’uso era comunque quello tipico dell’Olio di Iperico, ovvero come presidio per le ustioni, per le piaghe, per le piccole ferite; con una sostanziale differenza di composizione però: non conteneva solo Iperico e sue forme estrattive oleose, ma anche le parti estrattive dovute alle galle (ricche di tannini, che poco passano nell’Olio, ma la filtrazione sommaria consentiva che una parte acquosa passasse nel nostro preparato), ed anche alle larve degli afidi ed agli afidi maturi. Difatti la regola fondamentale era che le galle-borse fossero “mature”, ovvero piene di vita animale, e delle sue secrezioni zuccherine e cerose!
Quindi si otteneva un prodotto molto complesso, con azioni curative altrettanto complesse e sicuramente più potenti del semplice Olio di Iperico, come lo si prepara nei moderni laboratori di erboristeria.
Come animalista, preferisco usare solo l’Iperico e un olio estrattivo (che non necessariamente deve essere quello di Oliva; anzi, gli estratti di Iperico fatti con olio di Sesamo, assumono una intensa, quanto curiosa fluorescenza gialla, che circonda la superficie di contatto tra massa liquida (di colore rosso, tipico dell’Iperico) e l’aria.
Questa fluorescenza gialla, mi fece riconoscere l’olio di Iperico in un quadro seicentesco, intitolato “Il laboratorio dell’ Alchimista”, ma del quale non ricordo l’autore e il museo dove l’ho visto.
Rammento che tutto il quadro era dipinto con varie gradazioni di verde, mentre al centro, verso il fondo c’era un vaso cilindrico di vetro con questo liquido rosso brillante e con la “striscia” di fluorescenza. Il pittore era stato così abile da rendere il prodotto assolutamente riconoscibile, aepr coloro che lo hanno visto, come chi scrive.

Tuttavia ho voluto riportare la formula esatta (almeno quella che faceva mia nonna; le nonne di altri operavano in modi un po’ diversi!) di un tempo, per le ragioni storiche, che sempre mi spingono a guardare al passato, per meglio imparare per il presente.
Anzi, questo è il mio mestiere!

Vediamo cosa dice Dioscoride, che rammento essere stato medico militare in Giudea, quando Vespasiano e Tito comandavano le legioni durante la Prima Guerra Giudaica (siamo intorno al 60 d.C.), ed era Imperatore Nerone.
Dioscoride – Materia Medica – Libro I, Cap. 93 (vers. Mattioli). Useremo termini italiani moderni, salvo quando ci farà comodo usare il linguaggio – sempre italiano – cinquecentesco del Mattioli.
<< Le foglie, la corteccia, e i rami dell’Olmo, hanno la facoltà di “ingrossare” [questo è il linguaggio cinquecentesco del Mattioli e significa “rendere denso, compatto, chiuso”]. Le foglie tritate e applicate con Aceto, medicano la scabbia e saldano le ferite. Il che fa molto di più la parte interna della corteccia fasciatavi e avvolta attorno, come se fosse una fascia, poiché si piega così agevolmente come se fosse cuoio..
La parte più spessa della corteccia, bevuta al peso di un’oncia [all’epoca corrispondeva a circa 30 gr] con Vino o acqua fredda, discioglie la Flemma [in questo caso si intende il muco vischioso, che si può formare sia nelle vie respiratorie che in quelle digestive].
Il decotto delle foglie, e parimenti della corteccia e della radice, applicata come fumento [applicazione varia, che può voler dire anche applicata direttamente sulla parte, calda, come del resto esporsi ai vapori], fa consolidare presto le ossa rotte.
L’humore che nel produrre le prime foglie si ritrova nelle sue vesciche [e siamo arrivati alle nostre galle-borse!], fa bella la pelle e più splendida la faccia, ma come s’asciuga [la galla] , si convertisce in certi animaletti, quasi simili ai moscioni [e sono gli afidi maturi, che ormai sono cresciuti nelle galle].
Alcuni cuociono le foglie nei cibi, come si cuociono altre erbe.>>.
Mattioli, poi, nei suoi “Discorsi” riporta le diatribe (ovviamente indirette!) sorte tra Teofrasto (genero di Aristotele) e Plinio e Columella, romani di età Imperiale (I sec. d.C., coevi, più o meno di Dioscoride).

Plinio, nel suo celeberrimo “Storia Naturale” ci dice molte cose sull’Olmo.
E Plinio non è medico, ma comandante militare navale; in questa veste – difatti – morì soffocato dai vapori tossici durante l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. – quando al comando della flotta di Miseno giunse alle rive prossime all’eruzione, sia per curiosità scientifica che per portare aiuto a disgraziati abitanti di Pompei, Ercolano, Stabia ed altre città minori, distrutte dall’eruzione.
Al Libro XXIV, Cap. 8, dice:
<< Le foglie, la corteccia e i rami hanno la virtù d’ “ingrossare” [vedi sopra] e di serrare le ferite.
La parte della corteccia interna guarisce la scabbia, e lo stesso fanno le foglie applicatevi con Aceto.
Assunta la corteccia al peso di un denario [che corrisponde più o meno ad una dracma ovvero circa 4-4gr e mezzo] in una “hemina” (270 ml) di acqua fresca, purga il corpo, cacciandone fuori specificamente la Flemma/muco e l’acquosità.
Il liquore che distilla dall’albero [probabilmente l’essudato spontaneo che cade dai tessuti linfatici spontaneamente lesi; il che succede con molti alberi], si mette sugli ascessi, sulle ferite, sulle ustioni, alle quali giova anche la lavanda o l’applicazione dei vapori del decotto.
L’“humore” che nasce nelle vesciche [rieccole!] di questo albero, fa splendida e bella la pelle e fa la faccia molto più graziosa.
Le gemme delle prime foglie, cotte nel Vino, applicate sanano le tumefazioni e i gonfiori, dissolvendoli insensibilmente attraverso i pori della pelle.
Le foglie triturate e impastate con acqua, si applicano come empiastro nei piedi gonfi ed edematosi.
L’“humore” che geme dal midollo quando si taglia la cima o i rami, se applicato sulla testa fa ricrescere i capelli e conserva quelli che sono rimasti e non cadano più [!].

Galeno (medico ed amico personale di Marco Aurelio, rimase a corte fino a Settimio Severo, morendo ultraottuagenario), nel suo “Virtù dei medicamenti semplici”:
<< Ho qualche volta sanato le ferite fresche con le sole foglie dell’Olmo, confidando nella loro virtù costrettiva ma anche astersiva [che pulisce asciugando; tipica delle piante antipurulente] che posseggono.
La corteccia è più amara e più astringente e perciò sana, applicata con Aceto anche la scabbia.
Oltre a ciò, legata fresca a modo si fascia sopra le ferite, le può agevolmente saldare. Stesse prorietà hanno le radici; perciò alcuni ne fanno lavande con la loro decozione per far presto il callo dove si saldano le fratture delle ossa. >>

Sembra quasi che questi Grandi si copino pedissequamente: ma la Tradizione è proprio questo: la ripetizione continua e costante delle verità osservate nel corso dei secoli, anzi dei millenni.
Non mi stupirei che si trovasse una tavoletta babilonese o sumera, scritta in cuneiforme o un papiro egizio, ed – ammesso che parlino dell’Olmo – dicessero le stesse cose.

Il Mattioli stesso, medico senese del XVI secolo (protetto dall’Arcivescovo di Trento; gli uomini di scienza dovevano sempre avere protettori potenti! I roghi o anche solo un po’ di tortura erano frequenti, per quei tempi), aggiunge alcune note agli autori già visti.
Da “Discorsi sulla Materia Medicinale di Pedacio Dioscoride Anarzabeo” –edizione Veneziana del 1557 (sempre Libro I, Cap.93, subito dopo la traduzione del testo Dioscorideo):
<< Io, oltre a ciò ho sperimentato, che il liquore delle vesciche [le galle, ancora] sana nei fanciulli le rotture intestinali, se bagnandovi dentro delle pezzette, si mettono dentro al “brachiere” ben serrato [si intendono mutandine strette], spesse volte.
E la decozione delle scorze delle radici ammorbidisce le articolazioni indurite o i nervi retratti, facendone bagni, o esposizione ai vapori, nei luoghi del male e sana le enfiagioni che che alle volte fa il giogo nel collo dei buoi.>>.

Quanto all’aspetto mitico e sacrale, per i Greci, e dopo per i Romani, la pianta era sacra agli Dei del Sonno, del Sogno, della Notte, come Oneiros e Morfeo e quindi, alla fine dei poteri divinatori.
Ulmus somniorum, lo definivano i Romani.
Nel’Eneide, quando Enea giunge nei pressi dell’Averno, per conferire con i trapassati e conoscere il futuro della sua stirpe, trova un grande Olmo:
<< In medio ramos, annosaque brachia pandit
Ulmus opaca, in gens, quam sedem Somnia vulgo
Vana tenere ferunt, foliisque sub omnibus haerent >>
Virgilio, Eneide, Libro VI, versi 282-284

Cioè: << Nel mezzo dei rami, annose braccia spande
un Olmo cupo, immenso dove abitano i Sogni, che il popolo
ritiene vani, e che alle foglie sono appesi >>.
(Traduzione di Vincenzo Pacelli – pubblicata su “Cronos” anno III, n 2 – Aprile 2010).
Nel mondo germanico assume viene chiamato Embla, il nome della prima donna, come Askr, che sarebbe il primo uomo, ma è anche il nome del Frassino.
Così, mentre nel Mediterraneo l’Olmo rappresenta il mondo notturno e divinatorio, in quello Germanico, rappresenta addirittura la Fondazione del Mondo!
Sempre nell’area mediterranea, l’Olmo, insieme alla Quercia rappresentano i luoghi dell’esercizio del potere giudiziario: sotto una grande Quercia o sotto un grande Olmo, si amministrava la giustizia.
Divinazione – Conoscenza – Capacita’ di emettere una giusta sentenza.