Val d'Orcia Holiday
Agriturismi, case vacanza, B&B, SPA, hotel, castelli e ville
X
Italian English French German Japanese Portuguese Russian Spanish
GUSTO AMBIENTE CULTURA EVENTI SOCIETà

Ricettività
Attività
Tour

sabato 5 aprile 2014

La dieta mediterranea…. delle nostre parti

di Francesco Matteucci        
(VAL D'ORCIA - terra d'eccellenza, n°13)
Non passa giorno, ora, programma televisivo o radiofonico, informazione salutistica approssimativa o meglio medica che non raccomandi di applicare, per la salute di tutti noi mortali, la dieta mediterranea, quella dei nostri vecchi per intendersi, insieme ad un corretto stile di vita improntato sul movimento fisico almeno per un’ora al giorno.

Bene, molto bene e in queste affermazioni piene di verità spesso m’immedesimo, mi sogno e ricordo cos’è la vera dieta, quella che in passato veramente esisteva sulle tavole dove difficilmente si poteva ingrassare per la miseria che regnava in quasi tutte le case. Quella di oggi è un’altra cosa, nasce di recente, ricca e costosa, a uso del benessere sperando che…., anzi con certezza autenticata da prodotti esclusivamente made in Italy.
Allora elenco, confronto, cerco di interpretare tutto ciò che ora va sicuramente di moda. Verdure, tante verdure, crude come carote, pomodori, cetrioli, insalate…, cotte come bietole, spinaci, cavoli, rape rosse, zucchine….. con leguminose, ceci, fagioli, lenticchie e piselli, cotti e conditi di olio extra vergine di oliva, un cucchiaino e pochissimo sale, carboidrati, riso, farro, orzo, poca pasta possibilmente condita con pomodoro crudo, basilico, niente burro, poco olio, tonno, parmigiano grattugiato, pane integrale, poco, tanto pesce azzurro o nobile per carità cotto od al vapore o al cartoccio, senza sughi, evitando crostacei che hanno colesteroli, acqua non gassata, tanta acqua, il bicchiere di buon vino rosso ad ogni pasto importante e non di più, latte parzialmente scremato, tè, frutta colorata, tanta ed a tutte le ore, banane, kiwi, mele, spremute colorate (arance, pompelmo) e non gassate ma tassativamente naturali, quattro noci e non di più, yogurt intero, carne poca, preferibilmente bianca lasciando alla chianina qualche sottile fettina magra a settimana, rare le uova, piene di colesterolo, niente fritti, niente dolci se non crostate con poco zucchero e marmellate casalinghe, un caffé al giorno senza zucchero, è più figo, tutto pesato o misurato, niente fumo, e questa è sacrosanta verità, e meno male non aggiungiamo “niente sesso e rock’n roll”.
Il lungo elenco lascia senza fiato è vero, non poteva essere spezzettato perché così fa capire con gioia il modo di concepire la tavola con salubrità e “dieta mediterranea”, la nostra dieta che ci ha fatto e ci fa conoscere nel mondo intero per la capacità di dare al genere umano tanta salute.
Non si può certo dire che questo non sia un modo corretto di vivere, e chi lo nega, poi mi sveglio dalla lunga “rimuginazione” cervellotica che sono andato a elencare e con i piedi per terra, visto il “caro nome di mediterranea”, inizio a ricordare quale veramente fosse la “ vera povera dieta”.
La miseria era all’apice, all’ordine del giorno nella stragrande maggioranza delle famiglie locali e di tutta Italia (e sicuramente la stiamo purtroppo riassaporando) e non ci si poneva certo il dilemma di cosa comprare giorno dopo giorno per pranzo e cena, quale salubre prodotto scegliere per soddisfare con intelligenza i palati familiari. Nei mesi invernali la polenta era alla base della dieta; farina di granturco grossolanamente tritata, miscelata nel nero paiolo di rame con acqua, sale e se c’era qualche ricciolo di pane arrostito non sempre in olio, a volte nello strutto, così “nuda e cruda” e difficilmente il condimento la completava se non una veloce strusciatina su di un’aringa tanto per dare un pizzico di sapore così che molti nemmeno sporcavano il piatto mangiandola addirittura a fette, tenuta con le due mani, come si fa con un grosso panino ed accompagnata da bicchieri d’acqua del sindaco, prelevata con la capiente brocca di rame con il  beccuccio, prima di mettersi a tavola, alla fontanina posta nella più vicina piazzetta del paese perché non in tutte le case arrivava l’acqua. La variante montagnola era la polenta di farina di castagne, stesso procedimento. Il bicchiere di vino era raro. Le decantate verdure, anche per chi si faceva l’orto, erano quelle conservabili a lungo: patate, cipolle, aglio, fagioli, ceci, e pomodorini a piccia e non “pachino” come sciccosamente sono chiamati oggi, legati in lunghe “reste” attaccate in soffitta o nella legnaia da basso; dopo un mese si caricavano di polvere ed erano quasi sempre visitati da topini tettaioli che riuscivano con abilità a svuotarli tramite un piccolissimo foro si che ti accorgevi della ruberia solo toccando, anzi stringendo il piccolo, aranciato frutto.
Erano allora lavati in acqua bollente sia per togliere la polvere che per disinfettare la “indesiderata visitazione”. Verdure come bietole, spinaci, cavolo, sedano, scomparivano all’arrivo dei primi gelidi soffi di tramontana e proprio per fare la zuppa di fagioli, tipico nostro piatto, si usavano le bietole selvatiche, quelle piccole, saporite e con il gambo rossastro che rimanevano anche con il freddo a solatia ed al riparo di qualche greppo;  olio e cipolla come fondo della padella, fagioli secchi, bagnati almeno una nottata insieme ad un pizzico di bicarbonato e poi bolliti;  se c’era, una fettina di rigatino o gotino (guanciale) tagliato a dadini, acqua di sbollentatura dei fagioli o un po’ di brodo avanzato per tirare a cottura, insieme a due o tre pomodorini da “piccia”. Poco extravergine e una cipolla cruda schiacciata e tenuta in acqua per togliere acidità, accompagnavano la zuppiera di pane casalingo raffermo tagliato a fettine sottilissime (la coltella emetteva un indimenticabile cigolio-lamento nell’affettare questo tipo di pane) versandovi sopra la calda zuppa e non in versione ribollita come s’intende oggi; questa apparteneva ed appartiene ad un’altra cultura culinaria, mediterranea si, ma mai entrata nella nostra cucina.
Le patate a fettine, spesso cotte con lo strutto di maiale in mancanza d’olio, insieme a due uova sbattute, allungate con un po’ d’acqua e farina, per farne una frittata che bastasse a tante bocche. Pane casereccio, da molte famiglie fatto in casa lavorando l’impasto faticoso nelle ampie madie in legno che troneggiavano in tutte le cucine. Portato nei forni di paese per essere cotto, posto su lunghe tavole e custodito sotto a variopinte coperte si che non si bloccasse la lievitazione; pani che dopo la cottura a legna pesavano circa due chili, riportati a casa sulla stessa tavola caracollante posta in testa alle “massaie” e duravano per diversi giorni, tanto che spesso era più buono da raffermo che fresco. Oggi il pane di due giorni diventa come il gesso fiorentino,…duro.
Se c’era un minimo di possibilità economica, almeno una volta a settimana un pezzo di lesso, più osso che ciccia, finiva in un pentolone d’acqua con sale grosso, due pomodorini, una patata, una cipolla, due fili di prezzemolo e basta perché tutti gli altri odori facevano parte di altri periodi o stagioni. Il brodo era lungo, e abbondante il grasso attaccato alla poca carne; veniva egualmente gustato tutto, magari annaffiato da un filo d’olio, con due funghi sott’aceto come contorno e l’osso, costola, noce o paletta che fosse, nemmeno soddisfaceva l’appetito del secco cane da caccia che stazionava in casa seduto accanto alla seggiola del capoccia. Ogni tanto una tegamata di trippa con il callo dello zampo, al macello costava due lire, con un fondo di cipolla e poco più per mancanza di odori, naturalmente, ma alla montalcinese, con due preziosissimi fili di zafferano scaldato prima nella carta gialla e poi sciolto in poco brodo di cottura, tanto per dare buon sapore, profumo ed un po’ di colore, riempiva i piatti della famiglia, e con un così povero pasto, non da tutti i giorni per carità, veniva mangiato tanto pane.  Lo zafferano coltivato in Montalcino, era una tradizionale forma di coltura che consentiva una produzione ricchissima di tale spezia soprattutto nei terrazzamenti di cui la collina era piena, e la vendita di tale costosissima droga era facilitata dalla vicinanza del Paese alla via Francigena.
Rosmarino e salvia erano alla portata-uso di tutti tanto che non era raro vedere nelle piazze e piazzette paesane uscire dalle fondamenta di un muro un alberello di rosmarino o da un capiente vaso, amato e curato più di quello dei fiori, un’enorme pianta di salvia. Nel “poggio”, appiccicato al muro perimetrale del mio orto, esiste sempre un esemplare di rosmarino con queste caratteristiche, ripiantato dalle amorevoli mani delle donne locali dopo la morte dell’antecedente grande, venerata e vetusta pianta che da decenni là stava.
“L’acqua cotta” con acqua appunto, poco olio, pane raffermo, pomodorini, non sempre una cipolla, patata e in primavera-estate costola di sedano come odore, bollita a lungo tanto che la patata, sfacendosi diventava un brodo collante e sempre se c’era, affogato dentro la pietanza, un uovo cotto come in camicia tanto per dare sapore e nutrimento all’operaio o boscaiolo che a mezzogiorno trovava in un solo piatto primo, secondo e contorno.
Il maiale, ucciso intorno alla befana e “sistemato” dopo un paio di giorni nella grande cucina, era lusso per pochissime famiglie di paese, e diventava invece un efficace mezzo di sostentamento per i contadini a mezzadria; ma anche lì doveva durare a lungo perché le bocche in famiglia erano tante e tanti i giorni dell’anno, e non si buttava via nulla, appena le ossa, bollite, ribollite e scarnite per farne profumate soppressate. Molti, con ossa, grasso raffermo e poco più, con aggiunta di soda caustica e cenere e dopo lunga bollitura, facevano il sapone, a volte profumato con l’aggiunta di borotalco. Nell’attuale dieta il maiale e suoi derivati è quasi del tutto proibito, compresi i prosciutti che erano sempre di “cinta senese”, per cui  con tre dita di magro e tre di rosato grasso.
La pasta fatta in casa preparata con accortezza perché non tutti si potevano permettere di tenere il sacco di farina o di acquistarne qualche chilo; pinci, abilmente tirati con acqua, sale e farina, conditi alla meno peggio con briciole di pane insieme, e non sempre, a due dadini di gotino saltati in padella e un pomodorino estemporaneamente strizzato sul piatto. I maccheroni, tagliati a larghe strisce dalla sfoglia tirata con il “ranzagnolo” (matterello), prevedevano nell’impasto le uova, diverse, ed erano riservate, in occasioni particolari, a sughi di coratella di lepre o a due funghi e una salsiccia cotti velocemente nel tegamino e versati poi sul fumante piatto di pasta. Dalla stessa sfoglia si potevano ricavare, tagliati in punta di coltella a listelle più sottili, i tagliatini, in special modo se c’era brodo di gallina vecchia insieme a due ovini in embrione, frutto dell’eviscerazione della stessa.
Sulla stessa sfoglia, con l’arrivo della bella stagione, finiva l’impasto di bietole e ricotta o giovane “porrace” (Borrago offcinalis) e ricotta con un’idea di noce moscata grattugiata, per fare i tortelloni con gli stessi condimenti dei maccheroni. Il burro era sconosciuto e più tardi la prima comparsa sulle tavole fu la margarina vegetale-
Il brodo di verdure, scuro e profumato, ne conteneva poche, sicuramente quelle racimolate prima che si deteriorassero nella lunga conservazione e sempre le patate troneggiavano fra le rare altre; le carote un sogno, anche perché i nostri terreni, eccetto qualche orto finemente ben strutturato a metà collina, non ne consentivano una buona coltivazione.
Il “piturzello” (prezzemolo), primavera, estate, autunno, lo infilavano in tutti i piatti e onestamente questo era l’odore più ambito perché te lo potevi coltivare anche in un vaso da fiori posto sul “davanzale” della finestra.  Chi lo aveva in abbondanza, lo usava finemente tritato insieme ad acciughe sotto sale prima lavate, o meglio sarde che costavano meno, per farne un vassoio di “acciughe marinate”, più prezzemolo che acciughe, insieme ad olio, aglio e pementa (peperoncino). Era uso mangiarle fra due fette di pane indistintamente o al mattino per colazione, a pranzo, a merenda o a cena.
La bella stagione permetteva di preparare la panzanella, sempre con pane raffermo bagnato, sedano, cipolla o cipollotto, peperoncino verde, pomodoro, due foglie di basilico, olio, sale e pepe e una coppia di uova lesse sbriciolate o due acciughe spezzettate. Fredda, saporita dagli ortolani frutti di stagione e da uno schizzo d’aceto di cantina, si accompagnava spesso ad un frizzante, rosato e fresco bicchiere d’acquato. Così come il “pinzimonio”, per colazione, e la colazione era quella delle otto del mattino, dopo quattro ore di lavoro nei campi, dove un verdastro coccino pieno d’olio insaporito da sale e pepe permetteva di inzuppare, boccone dopo boccone, i pezzetti di sedano, due carciofi dell’orto, due peperoni o il raro pomodoro accompagnato da mezza salsiccia secca, una fetta di salame o un pezzetto di pecorino.
La frutta, solo per pochi e sempre e solo quella di stagione come le susine campanelle o verdacchie e fichi dottati; per l’inverno alcune mele conservate in soffitta sulla paglia e le noci, usate con parsimonia anche perché dovevano arricchire i dolci invernali e ripienare i fichi secchi.
L’aringa che arrivava da noi dai freddi mari del nord, essiccata e poi salata dentro a piccoli barilozzi di legno, era il cibo agognato nei giorni di gelo e di neve.  Di latte o di uova, secondo i gusti, cotta sopra la brace del camino e poi sfilettata, messa nel piatto e condita con un filo d’olio, era boccone saporitissimo, pesce agognato come il salato e tenero baccalà, che sfamava e dava energia variando menù nella famiglia.  Qui ci stava bene il bicchiere di vino buono, anche bianco.
Nel periodo dei funghi tutti si buttavano nelle nostre macchie, a piedi o in bicicletta, a raccogliere porcini e cucchi (ovuli), rosati paonazzi e lecciaioli, giallarelli e ordinali. Allora tegamate in umido o fritti o messi sott’olio in caraffe capienti; ma non tutti avevano olio, allora quale modo migliore se non conservarli infilzati in lunghi fili per essere seccati e usati poi, all’occorrenza, in sughi poveri.
L’olio per le rare fritture non veniva gettato ma, accuratamente filtrato o scremato con la “pescina” delle grossolane impurità rimaste, veniva lasciato a decantare in grosse tazze per poi essere nuovamente usato e usato ancora.
Baccelli e pecorino fresco era il “piatto” non per tutte le tavole; stagionale e caro perché pochi si permettevano il lusso di acquistare la forma di pecorino ed i baccelli.  Gli ortolani di paese li regalavano ai vicini quando questi cominciavano a diventare duri, più adatti a farne minestre o zuppe che a essere gustati per dolcezza e tenerezza.
Farina “spenta” da acqua quanto basta e poco sale era la base per fare i rivolti, tipico piatto delle giornate freddissime. Semiliquida, era versata a piccolissime dosi nella nera e grande padella dal lungo manico posta sul treppiedi del camino, con solo due gocce d’olio, e poi girata al volo, con colpo di polso come fanno i grandi cuochi moderni che non hanno inventato niente, e posti subito in un capiente vassoio l’uno sopra all’altro in lunghe file accanto alla fiamma del fuoco così che i familiari ne prendessero uno alla volta, finissimo, caldo, croccante, saporito.
E’ logico che con la cacciagione arrivava uno dei momenti di maggiore disponibilità di proteine nobili, ciccia sana e ben cotta sui camini, in umido o arrosto morto nei neri tegami ma spesso, per la troppa miseria, veniva venduta alle famiglie “nobili” di Montalcino e dintorni, perchè i due soldi  ricavati erano utili per acquistare farina, sale, spezie, pane, far riparare le scarpe consunte e sdrucite, farsi rattoppare o raramente farsi fare dalla sarta di paese una camicia nuova da lavoro o la stessa polvere e piombo per il caricamento delle cartucce.
Quante cose elencate non fanno parte della moderna dieta, quanti severi “niet” avremmo beccato da dietologi e medici per i fritti, i rivolti, gli insaccati, lo strutto, per la cacciagione, il grasso del bollito e le uova usate e soprattutto la carenza, per quasi tutto l’anno, di verdure e frutta fresca.
Consoliamoci con conigli e polli che erano alla portata dei contadini, anche se contati dal fattore e poi venduti al triccolone del luogo per farne due lire. In paese qualcuno teneva polli e conigli e le galline spesso girellavano in santa pace sulle strade del centro. Guardate con invidia per la ricchezza posseduta e mai odiate per la puzza e le cacche che lasciavano al suolo, tanto che da molte stalle situate lungo le strade, anche su accanto al Duomo, uscivano mescolati odore di ciuco, di cacca dello stesso e di cacca degli abitanti che insieme al ciuco la facevano. Il concentrato che ne derivava era usato come ottimo concio per orti ed orticelli; portato e sotterrato nei terreni paesani al mattino presto per non invadere l’aria, specialmente in estate, dei gas puzzolenti del bottino.
Questi gli odori della vita e mentre dalla cucina poco usciva di profumato, un alone di miseria e di lezzo invece usciva dalle abitazioni.  La gente era felice, si accontentava di poco, di quella “dieta” mediterranea forzata che normalmente li distingueva dai pochi pasciuti ricchi per i fisici asciutti che con poca fatica si portavano dietro. Si volevano tutti bene, si aiutavano come potevano, un bicchiere di vino li riscaldava, due li ubriacava e questa era l’unica soddisfazione mediterranea che rimaneva, dopo aver “impastato” cinque o sei figli con tanta, tanta fatica da sfamare, sempre però rigorosamente a pane, acqua, polenta, rigatino, fichi secchi e poco più.

News

News

Last five